Hikikomori è una parola giapponese che significa letteralmente stare in disparte. Hiku viene tradotto con “spingere” e komoru con “fuggire “. Hikikomori è un termine utilizzato sia per definire un fenomeno sociale, sia per nominare le persone che manifestano questo fenomeno.
L’Hikikomori è una persona che sceglie consapevolmente di ritirarsi dal mondo. Secondo Flavio Rizzo, docente all’Università di Tokyo, l’hikikomori può essere visto come un eremita postmoderno.
L’isolamento in casa
Ciò che contraddistingue l’hikikomori è proprio l’isolamento da tutto e tutti. Chi manifesta questa tendenza si isola in genere nella propria stanza o nella propria casa, evitando contatti con tutte le altre persone. Spesso anche con gli stessi familiari. Il concetto di hikikomori è stato a volte associato a quello di NEET (Neither in Employment or in Education or Trainin), persone che non portano avanti attività sociali come lo studio o il lavoro per un periodo più o meno lungo della propria vita. Tuttavia, a differenza dei NEET l’hikikomori vive una condizione voluta di forzato isolamento.

Alcuni hanno associato questo fenomeno alla dipendenza da Internet, e in generale allo sviluppo delle nuove tecnologie. In realtà i primi casi di hikikomori, documentati e studiati in Giappone, risalgono a una fase storica in cui internet e il digitale non erano così sviluppati come oggi. Alcune stime hanno inoltre mostrato come una buona parte degli hikikomori non utilizzi regolarmente computer o videogiochi, ma si intrattenga leggendo libri o semplicemente non facendo nulla.
La vastità del fenomeno, e la presenza dello stesso anche in altre nazioni, sta portando sempre più la ricerca a dedicarsi a questa atipica manifestazione sociale.
Il governo Giapponese ha identificato come criteri per identificare un caso di hikikomori i seguenti:
- L’abitudine a vivere sempre in casa
- Nessun interesse o volontà ad andare a scuola o lavorare
- Almeno sei mesi di completo ritiro sociale
- All’insorgenza non sono presenti schizofrenia, ritardo mentale o patologie psichiatriche
- Un fattore di esclusione è quello di mantenere delle relazioni sociali
La diagnosi differenziale dell’hikikomori
L’hikikomori è un fenomeno relativamente giovane. Non vi sono stime esatte del numero di hikikomori in Giappone. Secondo lo psichiatra Tamaki Saitō, che ha coniato il termine, sarebbero almeno due milioni. Altre stime valutano il fenomeno più cautamente, intorno ai 400.000 soggetti. In uno studio del 2008, condotto su 12 città e 3951 persone, è emerso come un numero variabile fra lo 0.9% e 3.8% avesse una storia di hikikomori.
Per comprendere che cosa effettivamente l’hikikomori sia, è utile fare una diagnosi differenziale e vedere “che cosa esso non è”. In uno studio pubblicato su “The Journal of Nervous and Mental Disease” si riporta come in un campione di 463 persone, di età inferiore ai 21 anni, siano emersi criteri di comorbidità per altre patologie psichiatriche come:
- 31% disturbo pervasivo dello sviluppo
- 10% disturbo d’ansia generalizzato
- 10% distimia
- 9% disturbo dell’adattamento
- 9% disturbo ossessivo compulsivo
- 9% schizofrenia
Altri studi analoghi, anche con età diverse, hanno confermato i dati, mostrando un fenomeno variegato e complesso. Spesso chi sceglie di vivere in solitaria, secondo lo standard hikikomori, presenta altri disturbi mentali. Dalla ricerca è comunque sempre emerso un discreto numero di persone che soddisfano i criteri per essere definite hikikomori, senza nessun altra patologia presente.
Queste evidenze aprono la discussione in questo ambito. L’hikikomori non è ancora riconosciuto come una specifica patologia, eppure, essendoci diversi casi che non risultano soffrire di alcuna altra problematica, è verosimile ritenere che si tratti di una particolare configurazione della mente che ricerche future potrebbero chiarire.
Le ragioni della scelta di isolarsi dal mondo
Rispetto alle ragioni che portano al nascere di un Hikikomori vi sono diverse ipotesi. Tamaki Saitō ha ipotizzato che il fenomeno si verifichi principalmente a causa dell’elevata competizione sociale che si è sviluppata in Giappone dal dopoguerra.
Fattori culturali alla base della scelta hikikomori
L’ideale Giapponese, secondo Saitō, è stato quello di una cultura dedicata alla crescita della nazione, dove lo sforzo individuale era particolarmente apprezzato e incentivato. Questa spinta alla crescita ha portato al consolidarsi di uno spirito particolarmente competitivo, capace di far cedere molte persone. L’hikikomori è una persona che rinuncia alla vita sociale perché percepita come troppo difficile da gestire a livello emotivo. L’alta competizione e la spinta al successo porterebbero le persone a rinunciare in partenza, decidendo di rinchiudersi in se stesse.
Questa ipotesi è particolarmente accreditata, soprattutto ascoltando le storie dei singoli. Di certo l’aspetto competitivo gioca un ruolo sempre più centrale nella nostra società. Non a caso lo stesso fenomeno si sta ora manifestando in diverse altre nazioni, dove le alte richieste sociali tendono a far percepire il mondo come difficile da gestire o addirittura ostile.
Fattori familiari
Sempre Saitō ha notato un altro fenomeno culturale rilevante nello sviluppo di questo disturbo sociale. Nel Giappone degli ultimi decenni i padri sono stati particolarmente coinvolti a livello lavorativo, spesso senza poter crescere i propri figli direttamente. Tale compito è stato sempre più spesso delegato alla madre. Questa particolare configurazione familiare, potremmo dire di eccessivo maternage, porterebbe i figli alla maggiore difficoltà di emanciparsi dal proprio sistema di appartenenza. Come se il padre non potesse svolgere quella funzione simbolica fondamentale di tagliare il cordone ombelicale e traghettare il figlio nella società.
Un elemento che spesso emerge nelle storie degli hikikomori e della loro famiglia è inoltre la grande difficoltà relazionale fra genitori e figlio. Tale difficoltà può essere comprensibilmente suscitata dalla scelta stessa di isolarsi. Spesso i genitori entrano in conflitto con il giovane hikikomori a causa delle sue abitudini e di ciò che esse comportano. Normalmente per un padre e una madre una questione sempre delicata riguarda il futuro dei propri figli. Non vederne una prospettiva può essere fonte di grande sofferenza.
D’altro canto si riscontra spesso una difficoltà preesistente alla scelta di isolarsi, forse legata proprio a quella mancanza del padre o comunque alle dinamiche relazionali disfunzionali che possono solo rendere più difficile lo sviluppo figlio.
Fattori caratteriali e hikikomori
Fatto salvo il caso di problematiche psichiatriche più strutturate, le persone che scelgono questa strada estrema non hanno particolari difficoltà caratteriali se non, spesso, un’alta sensibilità. Unita ad una difficoltà più generalizzata a costruire delle relazioni affettive stabili.
Tale difficoltà, strutturandosi nel corso del tempo, può generare diversi effetti come una peggiore immagine di se stessi, una più bassa autostima, una maggiore difficoltà nella comunicazione.
Fattori ambientali
Di certo un ruolo decisivo può essere attribuito anche a fattori ambientali come un gruppo di pari problematico, o eventi traumatici durante il corso dello sviluppo. Essere stati vittima di bullismo potrebbe naturalmente indurre la persona a percepire come maggiormente ostile il mondo intorno a se. D’altro canto, riuscire a instaurare almeno un rapporto affettivo più significativo con un altro, esterno al nucleo familiare, potrebbe essere un importante fattore di resilienza.
La questione del senso dal punto di vista dell’Hikikomori
Un’altra questione a mio avviso fondamentale, forse ancora più di quella competitiva, è quella del senso. Dello scopo più ampio della vita. La nostra società, dal dopoguerra ad oggi, non è stata in grado di offrire alle nuove generazioni un solido e valido scopo nella vita. La guerra distrugge e porta le persone al limite. Da quel limite ci si può solo rialzare, almeno per cercare di soddisfare i bisogni primari, che altrimenti rimarrebbero insoddisfatti. Oggi, in occidente, viviamo nella ricchezza. La maggioranza delle persone ha una discreta disponibilità di beni materiali che permette di non doversi eccessivamente preoccupare. La promessa fatta ai giovani è quella di studiare per poter poi lavorare e far parte della società. Il problema è che questa prospettiva non è poi così allettante. Dedicare quasi la totalità della propria vita, o almeno la sua parte migliore, a fare qualcosa funzionale a qualcos’altro che tutto sommato si ha già, è intuitivamente poco interessante.
Molti Hikikomori, a mio avviso, si rifugiano nel grembo della casa incapaci di trovare un senso, di cogliere lo scopo di tutto ciò che viviamo. Oltre a ciò una rilevante spinta all’autoesclusione può consolidarsi a causa dell’isolamento stesso.
La difficoltà a cambiare prospettiva
Quando si assume un certo punto di vista, tendiamo ad abituarci ad esso. Questa facoltà dell’essere umano è essenziale e alla base della capacità di adattamento umano. Ci abituiamo, lo facciamo di continuo, andando a crearci abitudini che diventano le nostre zone di comfort.
Quando una persona diventa hikikomori, la sua zona di comfort diventa la stanza, le sue abitudini, il suo stare con se stessa. Anche se a volte stiamo male nelle nostre zone di comfort, esse sono ciò che per noi risulta maggiormente naturale. Rimanere nella nostra stanza può essere fonte di problemi, ma mai quanto uscirne. Questa è la percezione che nel tempo viene a consolidarsi per chi decide di isolarsi nel lungo periodo.
Uscire dallo stato di isolamento forzato
L’hikikomori è un fenomeno che sembra avere più connotazioni sociali che psichiatriche. In quest’ottica sarebbe importante svolgere una funzione preventiva che aiuti le persone a vivere esperienze positive nella società, che contribuiscano a fornire loro un senso.
Nei casi già conclamati la risposta è nella relazione. Nel riuscire a creare un rapporto in cui l’hikikomori possa nuovamente percepire come possibile aprirsi e condividere. La psicoterapia, intesa in tal senso, potrebbe aiutare queste persone a decidere, nel tempo, di cambiare le proprie abitudini. Il problema, in genere maggiormente pressante, è tuttavia quello della motivazione. La psicoterapia funziona maggiormente se la persona sceglie consapevolmente di voler cambiare. Tuttavia difficilmente chi vive questa condizione sceglie spontaneamente di chiedere aiuto. Normalmente percepisce di bastare a se stessa.
Di certo un intervento che coniughi l’aspetto motivazionale, familiare e sociale potrebbe aiutare maggiormente.