Che cosa è una personalità evitante?
Il disturbo evitante di personalità è una condizione che riguarda il modo di percepire il mondo, di sentire gli affetti e di vivere gli eventi del quotidiano, connotata da una severa inibizione sociale, da sentimenti di inadeguatezza e forte sensibilità al giudizio negativo.
Queste caratteristiche si definiscono nella prima età adulta e proseguono stabilmente nel tempo tanto da mantenere costanza in svariati contesti.
Tale disturbo è anche caratterizzato da un comportamento reiterato di evitamento verso le relazioni e le situazioni in cui la persona può essere sottoposta a valutazione da parte degli altri.
Le persone con questo disturbo sono preoccupate di essere “prese in giro” dagli altri, rifiutate o criticate. Questo le porta a evitare situazioni sociali nelle quali devono interagire con gli altri limitando nel tempo il normale sviluppo delle abilità sociali.
La forte paura del giudizio
Nella fattispecie, le persone che soffrono di un disturbo evitante di personalità evitano anche posizioni lavorative – anche molto vantaggiose – che implicano un significativo contatto interpersonale. Potrebbero rifiutare anche delle promozioni sul lavoro poiché le nuove responsabilità potrebbero esporre alla critica dei colleghi.
Evitano di farsi dei nuovi amici, fintantoché non sono sicuri di piacere e di essere accettati dall’altro.
In linea generale, è appurato che coloro che soffrono di un disturbo evitante di personalità vorrebbero instaurare buoni rapporti con altre persone, avere un gruppo di amici con cui uscire la sera e un partner con il quale condividere i propri interessi. Tuttavia la paura di non risultare adeguati è così forte che preferiscono isolarsi, evitando il confronto con gli altri e il certo – secondo il loro modo di vedere il mondo – rifiuto.
La strategia di adattamento individuata – ovvero evitare, pur desiderando profondamente le stesse situazioni reputate paurose – è di certo funzionale alla sopravvivenza. Ciononostante, la sofferenza psicologica che ne deriva può essere tanto ingravescente quanto silente. La vita di queste persone si riveste di tristezza, di solitudine e di assenza di vitalità. Anche le attività e gli hobbies scelti non prevedono il contatto con gli altri (possono essere degli utili esempi: la musica, la lettura e il collezionismo).
Epidemiologia, Sviluppo e Decorso del disturbo evitante di personalità
I dati che la letteratura riporta ci indicano una prevalenza di questo disturbo pari al 2,4 %.
Il disturbo sembra essere ugualmente frequente tanto nei maschi quanto nelle femmine.
Il comportamento evitante spesso inizia nella prima infanzia o nell’infanzia con timidezza, isolamento, timore degli estranei e delle situazioni nuove.
Per quanto la timidezza nell’infanzia sia un precursore del disturbo evitante di personalità, nella maggior parte degli individui tende a svanire gradualmente con la crescita. Al contrario, gli individui che sviluppano il disturbo evitante di personalità possono diventare progressivamente più timidi ed evitanti durante l’adolescenza e la prima età adulta, quando le relazioni sociali con persone nuove diventano particolarmente importanti.
Come si manifesta il disturbo evitante di personalità
Le persone con disturbo evitante di personalità vivono generalmente isolate, spettatrici di un mondo al quale vorrebbero prendere parte reputandolo però troppo spaventoso. O peggio percependone un senso di pericolosità indefinito, alle volte non accessibile alla consapevolezza.
Tendono a pensare di non essere brave abbastanza, di poter essere rifiutate o ferite, di non piacere agli altri, di essere poco attraenti e socialmente inadeguate. Questi pensieri conducono a elevati stati di ansia nelle situazioni sociali, quali lavoro, amicizie, relazioni intime. Il che conduce loro a sottrarsi per paura di essere ridicolizzati, criticati e rifiutati.
Se qualcuno li disapprova o li critica anche leggermente possono sentirsi estremamente feriti. Gli individui con disturbo evitante si sentono inetti, inadeguati e incapaci.
Alcuni individui a causa di questo imbarazzo possono disdire occasioni importanti come colloqui di lavoro o appuntamenti galanti. Per non entrare in contatto con la sensazione di sentirsi inadeguati, inetti, esclusi dagli altri, le persone con disturbo evitante tendono ad avere una vita ritirata.
Diversi pazienti riescono a mantenere un discreto funzionamento sociale e lavorativo, organizzando il loro stile di vita in un ambiente familiare e protetto. Eppure, se il loro sistema di supporto cede, vanno incontro a depressione, ansia e collera. Per affrontare tale malessere a volte i pazienti evitanti possono fare uso di sostanze, in particolare di alcolici.
L’uso di alcol può talvolta assumere le caratteristiche di una condotta di abuso che va ad accrescere l’isolamento del paziente che vede andare in rovina oltre misura l’immagine di sé.
L’ipersensibilità relazionale
Questa caratteristica pervade il funzionamento del carattere di chi soffre di un disturbo evitante di personalità. In effetti tendono a vivere con molta concitazione la valutazione dell’altro, come se fossero sovente di fronte ad aspre critiche.
Il risultato di tale processo è che la personalità evitante tende a prendere per buone le sue credenze, autoalimentando un circolo vizioso da cui diventa impossibile emergere. L’esperienza che ne deriva non fa che confermare la personale immagine di sé, connotata da inferiorità, disistima e invalidante inadeguatezza.
Alla base sembra esserci una predisposizione innata, su cui le esperienze di vita hanno avuto ripercussioni importanti, a essere molto sensibili al giudizio dell’altro. Del resto, per persone di questo genere, l’altro rappresenta un modello di riferimento rilevante per orientare i valori e il giudizio di sé, come se in prima persona non si permettessero di mostrare il proprio potenziale e si ritenessero non abbastanza competenti per vivere una vita come gli altri.
In questa direzione, la credenza principale di una personalità evitante può essere ben rappresentata da pensieri di questo genere: “Se questa persona mi tratta così male, allora devo essere una cattiva persona; se a mia madre o mio padre non piaccio, come posso piacere agli altri; dal momento che non ho amici, devo essere davvero diverso e difettato; non posso tollerare le emozioni sgradevoli; non vado bene; non valgo nulla; non sono amabile”.
La personalità evitante non ha alternative. Questi pensieri corrispondo all’unica verità possibile. Sono radicati e influenzano fortemente la vita di tutti i giorni, la visione di sé, dell’altro e il modo di costruire delle relazioni efficaci e sane.
I sintomi che potrebbero presentarsi
Un disturbo di personalità evitante può associarsi a diverse sintomatologie di origine ansiosa.
L’ansia può caratterizzare le persone timorose e inibite dal punto di vista relazionale in momenti cruciale della vita. Ciò avviene solitamente nei periodi di transizione, come ad esempio durante l’ingresso nel mondo degli adulti o di fronte a dei cambiamenti che vanno a scuotere l’equilibrio raggiunto (lutti, legami sentimentali, cambiamenti che riguardano il nucleo familiare, problemi di salute) – su cui, chi soffre di un disturbo evitante di personalità, conta molto per la sopravvivenza emotiva.
Nella fattispecie, sembra esserci una particolare sovrapposizione tra il disturbo evitante di personalità e il disturbo d’ansia sociale (fobia sociale) per via del forte evitamento, dal punto di vista comportamentale, che mettono in atto nelle diverse situazioni sociali.
Ciononostante, chi soffre di un disturbo di personalità evitante utilizza la modalità dell’evitamento non solo sul piano sociale, ma anche nei confronti delle proprie emozioni, con forme più o meno intense di anaffettività, in famiglia, sul lavoro, anche con chi ha stabilito un legame stabile e duraturo.
L’evitamento, nel disturbo di personalità evitante, è l’unica modalità possibile ed efficace e non la si cambierebbe per nessuna ragione al mondo. È inoltre utilizzata a partire dalla prima adolescenza – in alcuni casi addirittura dalla prima infanzia – e con difficoltà si riesce a riconoscere la sofferenza che tale strategia, per quanto efficace ad allontanare le angosce da un possibile contatto emotivo con l’altro, può causare.
La persona che soffre di un disturbo evitante di personalità arriva solitamente a chiedere aiuto in seguito a delle delusioni significative o perché invitato da alcuni famigliari o dai partner che segnalano delle fragilità incolmabili.
Può anche capitare che i sentimenti di vuoto e inadeguatezza siano diventati insopportabili e si siano trasformati in manifestazioni depressive, le quali spingono l’individuo a soffermarsi e a riflettere sullo stile personale adottato per relazionarsi con se stesso, con gli altri e con il mondo.
In questo video descrivo più nel dettaglio come si sviluppa un disturbo evitante di personalità secondo il modello psicoanalitico relazionale.
Alcune cause
Alcuni autori sostengono che aspetti del disturbo evitante siano in parte dovuti a fattori biologici, innati, combinati ad alcuni fattori di rischio, quali esperienze familiari caratterizzate da sentimenti di impotenza.
In generale sembra che l’elemento più significato che sembrerebbe essere alla base del genesi di un disturbo evitante di personalità siano storie rilevanti di rifiuto e di vergogna soggettiva.
I soggetti che sviluppano un disturbo evitante di personalità possono aver avuto situazioni familiari o scolastiche umilianti, rifiutanti, ridicolizzanti, inflessibili e particolarmente richiedenti un’immagine sociale impeccabile.
Il disturbo evitante di personalità può anche essere causato dal lasciare un ambiente familiare caldo, accudente e protettivo e dall’inserimento in un contesto extra-familiare (tipicamente la scuola) che potrebbe essere percepito come aggressivo, denigrante e giudicante.
Secondo gli studi sull’attaccamento di Bowlby il funzionamento evitante è il frutto di una relazione di attaccamento in cui il caregiver a sua volta utilizza uno stile evitante. Il bambino nelle continue interazioni con la madre o con il padre sperimenta un’assenza di condivisione, di sguardi reciproci di sincronizzazione con l’altro.
Questi ripetuti eventi fonti di stress e dolore spingono poi il bambino, crescendo, semplicemente ad evitare situazioni analoghe che potrebbero procurargli nuovamente lo stesso dolore. Il problema è che così facendo la persona si allontana dalle relazioni abitandosi a “vivere da solo” o comunque limitando di molto i contatti sociali.
Questi apprendimenti avvenuti in tenera età non sono tipicamente consapevoli.
Intervento e Matrice Relazionale
Numerosi studi scientifici indicano la psicoterapia di stampo relazionale come un trattamento elettivo per raggiungere nuovi livelli di benessere e superare l’ipersensibilità al rifiuto.
In effetti sembrerebbe che un stile di lavoro orientato a far emerge e modificare le configurazioni con cui il soggetto evitante entra in relazione con se stesso e con gli altri, permetta di raggiungere delle trasformazioni importanti che abbiamo come intento primario la salute soggettiva e il benessere a trecentosessanta gradi.
Una psicoterapia efficace permette di prendere contatto con i sentimenti di vergogna e di impotenza che all’interno di una personalità evitante hanno generato un sistema valoriale fondato dalla certezza di non essere sufficientemente adeguati alle aspettative dell’altro.
In buona sostanza, all’interno del setting terapeutico si ha la possibilità di sperimentare un relazione non giudicante, accogliente, in grado di trasformare i vecchi modelli acquisiti.
Tale trasformazione può essere facilitata utilizzando anche strumenti quali l’ipnosi metaforica o l’ipnosi regressiva.
Aumentando la consapevolezza delle proprie emozioni e osservato il collegamento con i comportamenti di evitamento che si utilizzano nella vita di tutti i giorni, chi soffre di un disturbo evitante di personalità potrà individuare nuovi modi di relazionarsi con se stesso e con gli altri.
Nelle situazioni sintomatiche più gravi, può essere utile valutare anche un supporto farmacologico. Sebbene la terapia farmacologica non sia in grado di modificare stabilmente il carattere della persona, può ridurre i sintomi che potrebbero derivare dall’ansia sociale, diminuendo la sensibilità all’imbarazzo e alla vergogna. In altri casi la terapia farmacologia può essere d’aiuto per trattare la depressione che consegue all’isolamento e alle difficoltà nel costruirsi un contesto sociale piacevole.
Mario
Mario ha 39 anni. Dice di non avere mai avuto degli amici. Vive in solitudine; vorrebbe cambiare e emergere dal vuoto – che talvolta si trasforma in viscerale angoscia – che avverte quotidianamente.
Lavora da diversi anni nel campo della ristorazione e, nel suo lavoro, si sente sicuro, capace e apprezzato, tanto da essere scelto dal suo capo per l’organizzazione di eventi importanti.
Tutt’altra cosa è la sfera interpersonale. Si definisce timoroso, inibito; desidererebbe avere delle relazioni sentimentali ma le ragazze che incontra lo accusano di essere troppo distante e poco propositivo.
Si racconta con paura e con profonda disistima. Sostanzialmente vive la vita con una condizione di cronica inferiorità.
Il suo carattere è così fin da piccolo e nel tempo ha imparato a “sopravvivere” anziché vivere secondo le proprie passioni.
Dell’ultima sua ragazza dice: “Avevo molta paura del suo giudizio; lei era più bella e interessante di me; ero quindi molto diffidente. Sebbene la nostra amicizia fosse nata molto spontaneamente, ne ero intimidito. All’inizio ero entusiasta poi, come spesso mi è successo, la vicinanza si trasformava in spavento poiché il rapporto richiedeva intensità, intimità e scambi più profondi. Ricordo che mi scriveva sms carini, dicendomi che mi voleva bene; io non rispondevo alle sue dichiarazioni di affetto. Temevo che se le avessi detto che le volevo bene, lei poi si sarebbe aspettata ancora di più, cosa che non sono in grado tutt’oggi di fare. Inoltre il confronto mi stressava, perché le persone come lei tendo ad “ammirarle da lontano”, perché non mi sentivo all’altezza…”
Dopo diversi anni e tanta sofferenza che non si era concesso di sentire, Mario trova il coraggio di intraprendere un percorso di psicoterapia attraverso cui mettersi in viaggio alla (ri)scoperta di Sé, delle proprie risorse, ritrovando così vitalità e trasformando le modalità di relazionarsi con gli altri e nel mondo.