Le radici del modello psicoanalitico relazionale
Il modello psicoanalitico relazionale è stato formalizzato per la prima volta da Mitchel (1988), esso si presenta come un modello aperto e integrato, in cui confluiscono, senza perdere le loro specificità, diverse tradizioni.
La radice del modello può essere fatta risalire all’intento di Sullivan (1940) di spostare l’attenzione dall’individuo, ai processi che coinvolgono le persone, alle loro interazioni, partendo dalla credenza che queste siano la base su cui si costruisce la persona stessa. Da cui la necessità, all’interno di un percorso terapeutico, di essere consapevoli delle interazioni co-create nel qui e ora fra terapeuta e paziente.
Come scrive Amadei (2011), nel modello psicoanalitico relazionale lo spostamento fondamentale di prospettiva rispetto alla psicoanalisi ufficiale si manifesta in una nuova domanda clinica che non è più semplicemente: “Cosa c’è dietro questo (segno, sintomo, sogno, ecc..)?” ma, “Cosa sta succedendo, qui e ora, tra noi due?”. L’attenzione viene quindi spostata al presente, alla realtà, con la consapevolezza che ciò che si manifesta nelle interazioni è generato dalle interazioni apprese e interiorizzate precedentemente.
Come scrive Mitchell:
“I processi relazionali interpersonali generano processi relazionali intrapsichici che riplasmano processi interpersonali che riplasmano poi quelli intrapsichici più e più volte, in un nastro di Moebius senza fine nel quale l’interno e l’esterno si rigenerano in modo perpetuo e reciproco”.
E ancora:
“L’ambiente ha un ruolo nel modellare l’esperienza umana. Applicato al passato questo concetto si traduce nel principio ecologico che ciò che è accaduto è importante, che le dinamiche familiari e il carattere dei genitori hanno un forte impatto sulla formazione della personalità e della psicopatologia. Applicato al presente, il concetto generale si traduce nel principio di partecipazione: ciò che accade è importante, la partecipazione del terapeuta ha un ruolo cruciale nel generare i dati che il terapeuta stesso si sforza di comprendere”.
Altri “pensieri” che pongono le basi del modello psicoanalitico relazionale sono quelli di Ronald Fairbairn (1943) secondo cui vi sarebbe nell’uomo un sistema motivazionale primario teso a stabilire relazioni più che a soddisfare pulsioni; di Loewald che, per Mitchell (2000), nella revisione del lavoro di Freud, diede un contributo fondamentale nello spostare il punto d’origine dell’esperienza: “dall’individuo, al campo nel quale questi viene alla consapevolezza”.
Secondo Loewald l’inizio non è l’impulso, è il campo di cui tutti gli individui sono parte. L’esperienza procede dall’esterno all’interno e non viceversa. Doveroso è inoltre citare il contributo degli esponenti del Middle Group come Michael Balint e Donald Winnicott, anch’essi, seppur con focalizzazioni differenti, interessati a riportare l’attenzione alla realtà, a ciò che realmente accade al bambino nelle diverse fasi di vita.
Balint sosteneva ad esempio che il neonato desidera essere amato totalmente e incondizionatamente e che quando una madre non offre un appropriato apporto educativo-affettivo il bambino dedica la sua vita alla ricerca dell’amore che gli è mancato durante l’infanzia. Riteneva inoltre che nell’analisi sono rivissuti alcuni fenomeni preverbali e che la relazione stessa è decisiva nel trattare questo insieme di esperienze precoci, iniziando così a notare l’importanza di essere presenti alle relazioni reali così come si instaurano anche nel setting analitico.
Gli studi sull’attaccamento e il modello psicoanalitico relazionale
Il modello psicoanalitico relazionale ha inoltre ricevuto forza e fondamento scientifico dagli importanti studi di Bowlby. Profondamente scontento delle spiegazioni psicoanalitiche dei suoi giorni come quelle di Melanie Klein, che poneva le origini dello sviluppo sano e patologico esclusivamente nelle fantasie del bambino, piuttosto che nelle vicende reali delle sue relazioni formative (Wallin, 2007), Bowlby dedicò la sua vita professionale a dimostrare la necessità di riportare l’attenzione alla realtà.
”Mi sono fatto l’idea che gli eventi della vita reale – il modo in cui i genitori trattano i figli – sia di importanza cruciale nel determinare lo sviluppo e con tutto ciò Melanie Klein avrebbe poco da spartire […]. La nozione che le relazioni interne riflettano le relazioni esterne era totalmente assente dal suo pensiero” (Karen, 1994, intervista a Bowlby).
Secondo il padre dell’attaccamento sono le interazioni primarie che avvengono fra caregiver e bambino a definire le aspettative che il bambino avrà rispetto all’attaccamento e quindi, a determinare come il bambino si comporterà. Le sue intuizioni furono poi pienamente corroborate dagli elaborati protocolli di ricerca di Mary Ainsworth, rivolti allo studio delle diverse tipologie di attaccamento nei bambini e dal lavoro altrettanto proficuo di Mary Main, studentessa in origine della Ainsworth, che ebbe il merito di spostare l’attenzione verso i modelli rappresentazionali. Anch’essa, fornì una base empirica inequivocabile a conferma delle sue ipotesi, fondata su un paradigma di ricerca “ingannevolmente semplice”, denominato Adult Attachment Interview, con cui dimostrò la possibilità di valutare lo “stato della mente rispetto all’attaccamento” negli adulti. L’attenzione di questa intervista, in cui vengono poste delle domande circa la relazione con i propri genitori, è mirata al mondo rappresentazionale, più al come, che al cosa venga comunicato dalle persone.
Main fece due sorprendenti scoperte: la prima è che il comportamento del bambino osservato a 12 mesi era significativamente correlato con la struttura del suo mondo interno cinque anni più tardi; la seconda è una correlazione intergenerazionale tra il comportamento del bambino nella strange situation (ideata da Mary Ainswort per valutare lo stile di attaccamento del bambino) da un lato e “lo stato mentale nei confronti dell’attaccamento” del caregiver dall’altro.
Questi due risultati della ricerca empirica mostrarono come i modelli infantili del comportamento non verbale possono predire i modelli rappresentazionali. Tali approfondimenti portarono così Bowlby a concludere che “l’attaccamento intimo agli altri umani costituisce il perno intorno a cui ruota la vita di una persona, non solo nell’infanzia, nella pubertà, nell’adolescenza, ma anche negli anni della maturità, e poi ancora nella vecchiaia” (Bowlby, 1980).
Se vuoi ancora approfondire in questo video parlo dei diversi stili di attaccamento.
Modello psicoanalitico relazionale e Infant Research
Altro supporto deriva dai più recenti studi scientifici dell’”infant research” sullo sviluppo umano, in cui, autori come Stern, Sander e Tronick, pongono l’attenzione non più al “bambino ricostruito” psicoanalitico ma al bambino reale, utilizzando sofisticati strumenti di osservazione per cogliere le interazioni fra caregiver e bambino istante per istante e dimostrando così inequivocabilmente come già nei primissimi giorni di vita il bambino sia profondamente influenzato dalla presenza e dalla qualità di cura reale della madre.
Secondo il modello psicoanalitico relazionale ciò che primariamente muove l’uomo sono le relazioni e non le pulsioni come creduto nella tradizione psicoanalitica classica. Le relazioni primarie, basate sulle interazioni fondamentali, divengono il tessuto stesso della nostra mente. Crescendo, le interazioni di cui siamo attori principali, con tutte le nostre specificità temperamentali, vanno a creare la nostra interiorità. I nostri oggetti interni e le relazioni fra di essi si costituiscono in base alla nostra esperienza degli altri e di noi con gli altri. Non solo.
Modello psicoanalitico relazionale e neuroscienze
Oggi, le integrazioni del modello con gli studi neuroscientifici mostrano come tali riflessioni e osservazioni trovino un correlato neurobiologico assolutamente coerente (Siegel, 1999). I diversi stili di attaccamento mostrano diversi pattern di attivazione neurali che, secondo l’ancora attuale assioma di Hebb (1949), una volta attivati tendono a riattivarsi con maggiore facilità. E così infine, la riflessione, supportata dalla ricerca empirica, mostra come i modelli appresi vengano ripetuti, addirittura tramandati di generazione in generazione. Ovviamente ciò vale sia per quei modelli che permettono uno sviluppo “sicuro” e sia per quelli che possono portare ad uno stato di profondo malessere.
Per Mitchell
“l’intero spettro della psicopatologia può essere definito nei suoi termini generali come la tendenza di certe persone a ripetere sempre di nuovo le stesse esperienze dolorose, a provare gli stessi sentimenti spiacevoli e a instaurare le stesse relazioni autodistruttive”(Mitchell, 1988).
Secondo tale tradizione la terapia avviene grazie “all’incontro di due menti”, alla condivisione di “momenti di incontro” (Stern, 2004) fra terapeuta e paziente che permettono di interrompere la coazione a ripetere, di “spezzare” i modelli interattivi appresi che hanno portato alla generazione di sofferenza e malattia. Grazie ad una relazione genuina, in cui il terapeuta è disposto, per primo, ad abbandonare le maschere, rinunciando all’idea psicoanalitica classica di essere un autorità (Amadei, 2011), è possibile uno scambio reale, sentito come vero. E’ così possibile stare con ciò che accade nel setting terapeutico e partire da lì per creare nuovi modi più funzionali di interagire. Come scrive Bromberg (1998), la centratura è focalizzata sull’approccio più che su una tecnica, sull’attenzione a comprendere chi il paziente sia realmente, liberandosi dalla presunzione di avere un modello perfetto per ogni evenienza che, in un’ottica Top Down possa semplicemente essere calato dall’alto su di esso.
Uno sguardo relazionale
Ciò che serve è più uno “sguardo relazionale”, consapevole e focalizzato sulle relazioni, così come “si manifestano”, nel qui e ora. Si tratta di spostare il tempo da una dimensione di Chronos cronometrica, ad una di Kairos (dal greco “momento giusto o opportuno” o “tempo di Dio”) in cui il tempo, così come lo conosciamo, smette di scorrere, fermandosi sull’incontro, la connessione, su quell’essere qui, insieme, che porta alla svolta, all’insight, alla comprensione. Il processo sembra essere più facilmente descrivibile come quello della consapevolezza che, espandendosi, riesce sempre più a notare l’infinitesimale senza perdere di vista l’insieme. La consapevolezza, contagiosa, permette di accorgersi, insieme, di ciò che normalmente non viene “visto” ma semplicemente ripetuto. E’ come se, grazie alla relazione e in essa, le persone divenissero in grado di uscire dagli schemi strutturati del passato per essere nel presente, riuscendo così a generare nuovi schemi, o pattern di attivazione neuronale, più funzionali, più consapevoli.
Grazie all’osservazione reale di ciò che è, le persone possono così dirigere la propria volontà e le scelte fondamentali della propria vita con maggiore consapevolezza di sé e degli altri.
“Riuscire ad essere semplicemente consapevoli di quel che è presente, nel momento dell’esperienza interna ed esterna che stiamo vivendo, ci consente di abitare le nostre vite, di distinguere quel che ci nutre da quel che ci intossica e di trarne le conseguenze.” (Amadei, 2011).
Si richiede al terapeuta di essere sempre più in grado di mantenere una “pienezza della consapevolezza mentale” che gli permetta di essere presente e attento, libero dal giudizio o dal preconcetto ma semplicemente li, disposto realmente a comprendere l’altro senza la volontà di cambiarlo o interpretarlo a priori. Offrendo così al paziente un’apertura forse mai sperimentata, un accettazione e un desiderio genuino di incontro in cui il paziente può raccontarsi, sentendosi forse per la prima volta accettato e legittimato ad essere ciò che è. Fondamentale in tutto ciò divine anche il corpo, il respiro, l’attenzione a ciò che il corpo, con i suoi movimenti e le sue rigidità porta nella relazione, nello scambio, raccontando ciò che è stato e ciò che è. Serve quindi uno sguardo in grado di cogliere il particolare, permettendo così al disegno d’insieme di emergere nella sua complessità. Ciò diviene così possibile se si permette a sé stessi prima di tutto e conseguentemente all’altro, di portare realmente sé stessi, tutti i propri sé nella relazione, senza paura di giudizio o disapprovazione a priori.
Bibliografia
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Bromberg, P.M. (1994) Clinica del trauma e della dissociazione. Standing in the Spaces. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2007.
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Hebb, D.O. (1949) The Organization of Behavior, John Wiley, NewYork.
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