Uno dei temi che da molti anni ormai cerchiamo di approfondire in psicologia e quello l’origine della cattiveria. La cattiveria viene normalmente intesa come l’insieme di tutta una serie di caratteristiche che portano la persona a compiere atti malvagi.
Moshagen e colleghi, dell’Università di Ulm in Germania, hanno condotto uno studio molto interessante per andare a valutare quali siano le caratteristiche di una persona con una certa predisposizione alla cattiveria. Prima di approfondire l’origine della cattiveria vediamo queste caratteristiche.

Le caratteristiche della cattiveria
I ricercatori, intervistando circa 2500 persone, hanno potuto isolare nove caratteristiche che, insieme, vanno a costituire quello che hanno definito come fattore D, ovvero, fattore Dark.
Similare al fattore G, identificato da Sperman come fattore generale dell’intelligenza, il fattore oscuro della personalità risulterebbe essere un fattore generale e misurabile di cattiveria di una persona.
Le 9 caratteristiche del fattore D
- Individualismo. La tendenza a percepirsi come individui a se stanti, sminuendo i bisogni della collettività in virtù dei propri.
- Egoismo. La prima caratteristica del fattore D è l’egoismo. La persona egoista è una persona eccessivamente focalizzata suoi propri interessi, anche se a scapito degli altri.
- Machiavellismo. L’essere machiavellici, dal famoso autore dell’opera “il principe“, viene inteso come essere spregiudicati, strategici, distaccati e sempre focalizzati sui propri scopi.
- Narcisismo. Narciso si innamorò della sua immagine riflessa. Allo stesso modo il narcisista è così focalizzato su se stesso da non vedere nemmeno gli altri. La propria ammirazione è completamente rivolta su se stesso.
- Superiorità psicologica. Un’altra caratteristica interessante individuata dai colleghi è quella della superiorità psicologica. La persona cattiva ritiene di meritare di più, di essere migliore, più speciale degli altri. Giustifica i propri atti sulla base di questa profonda e radicata convinzione.
- Psicopatia. Caratteristica che presenta un deficit nell’affettività, scarsa empatia, poca sensibilità, tendenza a mentire, impulsività.
- Sadismo. Il sadismo è la tendenza delle persone a infliggere dolore agli altri esseri viventi traendo piacere da questo comportamento. La persona sadica non si pone troppi problemi nel causare dolore agli altri.
- Interessi sociali e materiali. La persona che mantiene questa forma di cattiveria è in genere molto focalizzata sull’acquisizione di un certo status sociale e sull’accumulo di ricchezza e beni materiali.
- Malevolenza. Intesa come la tendenza all’ostilità verso gli altri che si può tradurre in agiti di diverso tipo.
Il fattore oscuro della cattiveria
Queste caratteristiche, strettamente correlate fra loro, vanno a definire il fattore D.
È necessario chiarire che tutti abbiamo un lato scuro che può, più o meno, prendere il sopravvento nella nostra vita. Il fattore D è quindi comune a tutti gli esseri umani, solo che taluni tendono a sviluppare maggiormente queste caratteristiche.
La persona che avrà sviluppato maggiormente questa dimensione oscura sarà una persona capace di commettere azioni anche molto negative nei confronti degli altri, senza provare particolare sofferenza e senza entrare in conflitto con se stessa. Quando queste caratteristiche prendono il sopravvento nella personalità di una persona vengono a diminuire caratteristiche antagoniste fondamentali come il senso morale, l’etica, l’empatia. Vediamo così quale può essere l’origine della cattiveria.
L’empatia mancata
Secondo lo psicologo inglese Simon Baron-Cohen la cattiveria può essere intesa, a pieno titolo, come un vera e propria malattia. La malattia dell’assenza di empatia. Secondo l’autore del libro “La scienza del male” le persone cattive sono persone incapaci di provare empatia, incapaci perché il loro stesso sistema nervoso non è più in grado di immedesimarsi pienamente nell’altro o, se lo è, di non provare più le stesse sensazioni che normalmente proverebbe.
L’empatia è una facoltà fondamentale dell’essere umano. Grazie ad essa siamo in grado di creare, strutturare e mantenere relazioni fondamentali per l’individuo e la società. Laddove condizioni socioeconomiche, culturali, familiari o biologiche intervengano negativamente, l’empatia può risultare carente, portando le persone ad agire sempre meno accorgendosi o tenendo in considerazione quanto provato dall’altro.
Come ben evidenziato già da Moshagen il fattore D porta le persone a giustificare il proprio punto di vista con convinzioni come “io valgo di più”, “tutti farebbero lo stesso”, “ciò che conta è vincere” ecc..
Ma vediamo più nel dettaglio quali possono essere i fattori in grado di predisporre la crescita della cattiveria nelle persone.
Origine della cattiveria e fattori biologici
Questo è un tema discusso in letteratura e ancora aperto rispetto alle conclusioni. La domanda è:” quanto i fattori genetici sono in grado di portare alla cattiveria?”.
In realtà non è ancora mai stato trovato un “gene del male“. Ciò che però si sta delineando è come la nostra genetica possa influenzare gli effetti dell’ambiente sul nostro carattere.
Noi esseri umani abbiamo un patrimonio genetico la cui espressione è strettamente legata all’ambiente. A ciò che fin dalla nascita viviamo e sperimentiamo. L’aria che respiriamo, il cibo che mangiamo, le situazioni in cui ci troviamo e, soprattutto, le relazioni che viviamo.
Queste condizioni, che tipicamente vengono definite ambientali, influenzano in particolare alcuni geni regolatori che decidono della trascrizione, o meno, del nostro DNA. Ciò che è stato possibile riscontrare dalla ricerca scientifica e che alcuni geni, in particolare, sembrano amplificare gli effetti dell’ambiente sulla trascrizione del nostro genoma e quindi sulla configurazione che poi il nostro stesso sistema nervoso avrà. Ciò vuol dire che non vi è un gene legato al male o al bene, ma che semplicemente vi sono alcuni geni in grado di amplificare l’effetto che un ambiente sano o malsano avrà su di noi.
La ricerca è ancora in divenire e servirà tempo prima di avere un quadro più completo ed esaustivo. Non possiamo quindi dire che l’origine della cattiveria abbia una base genetica, ma che una certa genetica, associata a specifiche situazioni di vita, possa favorire lo sviluppo delle caratteristiche del fattore D.
Fattori familiari e origine della cattiveria
Un fattore fondamentale nello sviluppo del bambino, e poi del giovane adulto, è di certo il fattore familiare. La psicologia transgenerazionale ha ben definito quanto i sistemi culturali di appartenenza possano influenzare profondamente il nostro modo di intendere e, prima ancora, percepire la realtà. I pensieri ricorrenti tra genitori, fratelli, nonni o zii sono l’acqua in cui nuotiamo fin da bambini. Noi esseri umani apprendiamo così per modellamento, semplicemente osservando le persone con cui cresciamo, oppure in base alle esperienze interattive relazionali che abbiamo con le persone che si prendono cura di noi.
La relazione è il più potente fattore di cambiamento umano. All’interno delle relazioni, letteralmente, il nostro cervello viene plasmato, divenendo la struttura che sostiene la nostra mente.
Esperienze relazionali disfunzionali, caratterizzate da violenza, abusi, trascuratezza, più in generale sofferenza e dolore, possono facilmente portare, in alcuni casi, allo sviluppo delle tendenze succitate. Di certo l’origine della cattiveria ha quindi radici che vanno lette nel nostro sistema di origine.
Le cattive compagnie
Un’altra importante agenzia di socializzazione è quella del gruppo di pari. Relazioni amicali sviluppate fin da bambini, e poi portate avanti nell’età dell’adolescenza, o anche da adulti, impattano profondamente sulla costruzione del nostro carattere, sullo sviluppo di modelli di riferimento valoriali, sulla rappresentazione stessa che abbiamo della realtà e del nostro ruolo in essa.
Nei gruppi sono molte le dinamiche che si vengono a costituire, andando ad influenzare i comportamenti delle persone, generando sistemi di credo complessi e particolari che alimentano definite immagini di se stessi.
Ricoprendo un certo ruolo nei diversi gruppi sociali è facile assumere atteggiamenti e comportamenti affini a quello stesso ruolo. Questo effetto è stato a lungo studiato dagli psicologi sociali.
Gli studi in psicologia sociale sull’origine della cattiveria
Milgram e la scossa elettrica
Uno dei più interessanti esperimenti di psicologia sociale sull’effetto dell’autorità nel condizionare il comportamento delle persone è quello di Milgram. Nel 1961 Milgram reclutò 40 persone di diversa estrazione sociale, chiedendo loro di partecipare ad un esperimento che presentò come un esperimento sull’apprendimento.
I partecipanti incontravano il ricercatore insieme ad un’altra persona, che ritenevano essere un partecipante come loro. In realtà l’altra persona era un collaboratore del ricercatore. Veniva fatta un’estrazione a sorte (pilotata) che assegnava al partecipante reale il ruolo di insegnante, mentre al collaboratore del ricercatore quello di alunno.
Definiti i ruoli, all’insegnante veniva posta davanti una console con 30 leve, corrispondenti a diverse intensità di scossa elettrica. Queste andavano da 15 a 450 volt. Sotto i pulsanti era specificato l’effetto che l’intensità della corrente avrebbe avuto sull’alunno, da lieve scossa fino a scossa molto pericolosa o, addirittura, mortale. L’insegnante doveva impartire all’alunno un compito di apprendimento. Se l’alunno avesse sbagliato avrebbe dovuto infliggergli una pena progressivamente maggiore.
Il collaboratore del ricercatore in realtà non riceveva nessuna scossa, ma doveva fingere di riceverla in relazione all’intensità della scossa stessa, fino ad arrivare a fingere un completo svenimento. Ciò che accadde andò oltre le aspettative degli stessi ricercatori. Dei 40 soggetti la maggior parte arrivò ad infliggere la massima pena, andando contro i propri principi morali, manifestando la propria obiezione a farlo ma, infine, facendolo ugualmente. Dal canto suo il ricercatore insisteva affinché il partecipante, l’insegnante, schiacciasse le leve. Lo fece con parole forti come “lo devi fare”, “non hai altra scelta”, “è necessario per l’esperimento”. Fu estremamente interessante constatare quanto, nonostante i partecipanti si rendessero conto di star facendo soffrire l’altro, arrivarono comunque a schiacciare le leve.
La spiegazione data da Milgram e colleghi fu che la percezione di legittimità dell’autorità, la pressione sociale e l’adesione al sistema di autorità erano state in grado di far compiere azioni di tal fatta. L’origine della cattiveria era in parte svelato.
L’eperimento del carcere di Stanford
Un altro interessante esperimento in psicologia sociale che ha permesso di accorgersi di quanto l’influenza dei gruppi possa impattare profondamente sui comportamenti delle persone è quello di Zimbardo.
Durante l’esperimento carcerario di Stanford Zimbardo, insieme ai suoi collaboratori, potè verificare quanto all’assegnazione di ruoli specifici fosse in grado di muovere comportamenti e dinamiche inaspettate, al punto da dover interrompere l’esperimento stesso.
Nel 1971 75 studenti risposero ad un annuncio di reclutamento per un esperimento di psicologia sociale. Di questi Zimbardo, insieme ai colleghi, scelse 24 fra quelli che ritenne maggiormente equilibrati e meno portati a comportamenti devianti. I 24 studenti vennero divisi in due gruppi di carcerati e carcerieri. Ai carcerieri venne data un’uniforme, manganelli, manette, fischietti e degli occhiali da sole con lenti riflettenti al fine di de-individualizzarli e, di conseguenza, de-responsabilizzarli. Ai carcerati venne assegnata una cella e anche a loro venne data un’uniforme oltre ad una catena attaccata alla caviglia.
Nell’arco di un paio di giorni si manifestarono comportamenti estremi, vessatori, intimidatori, umilianti da parte dei carcerieri e di ribellione e opposizione da parte dei carcerati. I carcerieri costrinsero i carcerati a cantare canzoni oscene, a defecare nei secchi dovendoli poi tenere nelle celle, a pulire le latrine con le mani. I carcerati, a loro volta, cercarono di combattere i carcerieri, di occupare la cella non facendoli più entrare, e dopo qualche giorno di evadere in massa. Dopo cinque giorni, tuttavia, i carcerati mostrarono segni di disgregazione individuale e collettiva, scompensi emotivi, risultarono docili e passivi. I carcerieri continuavano invece con i loro atteggiamenti sadici e umilianti. A quel punto Zimbardo e colleghi dovettero interrompere l’esperimento.
Origini sociali della cattiveria
Questi, come tanti altri esperimenti in psicologia sociale, hanno mostrato quanto le relazioni possono impattare profondamente sul comportamento umano, andando a spingere le persone ad agire in disaccordo con i propri stessi principi morali, con i propri valori di riferimento. L’origine della cattiveria può quindi di certo essere ricercata nelle dinamiche sociali in cui la persona è cresciuta. Il gruppo, e più in generale le relazioni, hanno un grande impatto sul sul nostro comportamento e, nel tempo, sulla costruzione stessa della nostra identità.
L’origine della cattiveria e fattori personali
Ogni storia è comunque unica, ed è difficile, se non impossibile, fare delle categorizzazioni che possano comprendere tutti i casi. I diversi percorsi di vita possono condurre a differenti esiti di sviluppo. Questo vale per qualsiasi attitudine interiore, come anche per la cattiveria. False credenze, cattive compagnie, modelli disfunzionali, eventi traumatici, abusi, violenze e come visto una certa predisposizione genetica sono tutti elementi che, insieme, possono concorrere nella costruzione di un’identità caratterizzata da un’attitudine alla cattiveria.
Vi è anche una componente anímica, più difficile da comprendere e studiare, che ha a che fare con un’innata predisposizione, frutto di complesse alchimie, difficili da districare e comprendere. Certo è che nell’arco della vita andiamo a costruirci un’immagine di noi stessi sempre più stabile e caratterizzata dall’esperienza che abbiamo vissuto. Identificati in noi stessi e nella nostra storia diviene sempre più difficile cambiare e quando è il fattore D a divenire preponderante e stabile la sofferenza è prima o poi assicurata.